Non è stato sufficiente l’esempio tenace di Gaetano
Salvemini (1873-1957) nel prescrivere, per le “tre malattie” dell’Italia
meridionale, i rimedi che riteneva più appropriati per l’epoca storica in cui egli
visse. Avendone menzionato il numero, elenchiamo anche le caratteristiche di
queste malattie secondo l’illustre meridionalista.
La prima,
che Salvemini non reputava un privilegio del solo Meridione, ma che era comune
anche al resto dell’Italia, potrebbe essere riassunta come una tendenza all’oppressione
economica delle classi sociali più indifese da parte di uno Stato “accentratore, distruttore, divoratore”. Per
dirla con le stesse parole di Salvemini: “… è
la malattia dello Stato, il quale, divenuto mancipio di un pugno di affaristi e
di parassiti, deve opprimere con un sistema tributario selvaggio tutte quelle
classi, che non prendono parte al mercimonio tra potere esecutivo e maggioranze
parlamentari…”[1]
La seconda,
in natura simile alla prima, è dovuta alla subalternità economica dell’Italia
meridionale rispetto all’Italia settentrionale. Leggere le chiare parole del
Salvemini farebbe bene a molti: “La
spedizione garibaldina fu per la maggior parte dei benpensanti settentrionali
un atto di conquista vera e propria. Il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entrarono a far parte
dell’Italia una; e la unità del bilancio nazionale ebbe gl’effetti di obbligare
i meridionali a pagare gl’interessi dei debiti fatti dai settentrionali prima
dell’unità e fatti quasi tutti per scopi che per l’unità nulla avevano a che
fare.”[2]
Illuminante il passaggio seguente: “Questa
seconda malattia potrebb’essere da un osservatore superficiale confusa
facilmente con la prima; ed ha in realtà con quella molti punti di contatto.
Infatti, è la macchina dello Stato quella che serve a riversare la ricchezza
meridionale sul Settentrione…”[3]
La terza,
per la quale il Salvemini afferma che “non
c’entrano né il clima né la razza; le cause sono esclusivamente sociali...”,
è individuata nella “ struttura sociale
semifeudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un
anacronismo…”[4]
Per la cura di queste malattie Salvemini
condivide, con gli intellettuali dell’epoca, rimedi semplici nell’enunciato: “L’Italia meridionale ha bisogno di un
Governo che non la opprima sotto il peso delle imposte, e quindi è necessario
che tutta la politica italiana si riformi; ha bisogno di un Governo, che segua
una politica di giustizia distributiva e non aggravi la mano sul Mezzogiorno a
favore dell Settentrione; è necessario che venga rispettata la giustizia nelle
relazioni tra proprietari e lavoratori…”[5]
Salvemini, tuttavia, nel suo scritto del 1900, si
mostrava scettico nella capacità dello Stato dell’epoca di dare un Governo
siffatto all’Italia post-unitaria. Egli allora, pur condividendo quanto c’era
da fare per la risoluzione della questione meridionale, si chiedeva quanto
segue: “C’è nell’Italia meridionale un
punto d’appoggio, su cui si possa far leva per sollevare il mondo sociale? O,
in altre parole, c’è nell’Italia meridionale un partito riformista? E se non c’è,
è possibile che sorga? e quali sono le persone che lo comporranno?”[6]
Prima di avventurarci nell’ardita tesi che dal 4
marzo scorso la questione meridionale è rinata in parte sotto le vesti descritte
da Salvemini, in parte con caratteristiche del tutto inedite, vorremmo
premettere che non abbiamo la pretesa di indicare percorsi economico-sociali
che portino alla soluzione della questione stessa. Questo compete a quel partito riformista indicato da Gaetano Salvemini.
Infatti, esso, nel caso divenisse l’ossatura di un futuro Governo, dovrà realizzare
ciò che una parte della classe intellettuale sapeva da anni, per dare risposte
concrete ai cittadini del Mezzogiorno d’Italia.
Dal quadro
che esce fuori dalle urne, dopo le ultime consultazioni, l'industrializzato
Nord ha rinsaldato il proprio legame politico con le forze di una destra che è
nettamente diversa da quella a maggioranza berlusconiana. D’altro canto, il
voto compatto dell’intero Meridione per una forza di opposizione alle politiche
economiche e sociali del precedente (e ancora attuale) Governo, non lascia
alcun dubbio sul fatto che i cittadini del Sud abbiano ormai preso coscienza
delle “tre malattie”, i cui sintomi sono la sofferenza provocata dalla stretta
sui conti pubblici (trasporti, sanità e servizi sociali) e della crisi del
lavoro. Questa tenaglia socio-economica, sommata all’esposizione continua delle
popolazioni del Meridione alla barbarie della criminalità organizzata, ha
ingenerato una risposta molto diffusa, nelle classi sociali più diverse, nei
confronti dei partiti che, pur potendo agire – per tradizione politica – nella
direzione indicata da Salvemini, hanno preferito gestire il potere in modo
clientelare e, a volte, addirittura familistico. Il voto corale non lascia alcun
dubbio sul fatto che il Sud abbia voluto individuare una possibile risposta al
quesito posto da Salvemini. Il Movimento destinatario del consenso e le altre
forze politiche che, nella loro tradizione riformista, avrebbero potuto
concorrere a mettere in atto dei rimedi efficaci per il “malato” Meridione sono ancora in tempo a decodificare la vera natura di questi segnali. Pertanto,
quello che oggi viene definito uno “stallo” politico, in realtà potrebbe essere solo la conseguenza di una mancata
corretta analisi della portata sociale della distribuzione geografica del voto.
La stessa distribuzione che, secondo il parere di chi scrive, ripropone ancora
una volta, con forza, l’importante domanda di Gaetano Salvemini:
C’è nell’Italia
meridionale un partito riformista? E se non c’è, è possibile che sorga? e quali
sono le persone che lo comporranno?”