Commento al libro “Profumo e polvere di terra”
di Lorenzo
Peluso, edito da Il Melograno (maggio 2103).
Il recente lavoro di Peluso, “Profumo e polvere di terra”,
trova la sua essenza, secondo il parere di chi scrive, nel penultimo e
nell'ultimo capitolo, intitolati, rispettivamente, “Quale futuro” e “Il
coraggio e le speranze di Antonio”. Sebbene l’autore non manchi di fornire una
prova di profonda conoscenza del territorio del Vallo di Diano nella sapiente
costruzione dei primi capitoli, ricchi di cenni storici e di dati, è proprio
nella parte finale del tomo che il lettore ritrova esplicita l’ intenzione
celebrativa del mondo contadino. Il rispetto e - oserei dire - l’amore per la
“cultura contadina” danno a questo libro un sapore letterario unico, che si
apprezza particolarmente se si è potuto conoscere, anche solo di riflesso, quel
mondo fatto di sincera solidarietà nei confronti del prossimo e di profondo
rispetto per l’ambiente.
L'autore del libro "Profumo e polvere di terra", Lorenzo Peluso |
Nel penultimo capitolo l’autore cerca di individuare una
possibile via di uscita dal difficile momento che il Vallo di Diano sta
attraversando. La vallata, la cui vocazione agricola e turistica è
indiscutibile, ha solo da qualche decennio abbandonato le tradizioni agro-pastorali
che rappresentavano salde fondamenta di una società prospera e coesa. L’assetto
geo-morfologico del Vallo di Diano ha costituito, per molti versi, una barriera
protettiva nei confronti di contesti sociali più avanzati e influenti della
nostra Penisola. Un’oasi felice, forse, ma pur sempre un’oasi; come se i monti
perimetrali avessero voluto frenare l’inesorabile scorrere del tempo. Questa improbabile
impresa è divenuta impossibile, tuttavia, quando i nuovi stili di vita,
veicolati da media sempre più pervasivi, hanno imposto nuovi modelli sociali ai
nostri nonni e ai nostri genitori. Il tutto è bene evidenziato nella parte
introduttiva del libro. L’autore, fa suo il disorientamento degli abitanti
della vallata che, avendo dedicato l’intera esistenza al lavoro dei campi o
alla pastorizia, vedono superati quei modelli produttivi e quell'impostazione
sociale da un consumismo sfrenato che conoscerà l’acme negli anni ’80 e ‘90,
prima dell’attuale crisi economica. Peluso fa un’analisi dettagliata e
veritiera della comunità contadina dell’immediato dopoguerra, a tratti rendendo
meno grave il racconto della vita dei campi con qualche nota nostalgicamente
bucolica. L’aspetto più importante, per chi scrive questo commento, tuttavia, è
da individuare nel fatto che, in questo capitolo, l’autore ha saputo evidenziare
la necessità di un forte senso di “comunità” nella società di un tempo. Il
singolo operatore agricolo, infatti, con la sua sola famiglia, non era in
grado, senza l’aiuto delle fattorie dell’”area”, di svolgere tutte quelle
attività che andavano compiute in un lasso di tempo molto ridotto. Infatti, solo
un apporto di un considerevole numero di braccia, prima della meccanizzazione,
poteva rendere possibile un lavoro esteso nello spazio e nel tempo. La
compartecipazione al destino altrui e la solidarietà tra simili erano quindi delle
realtà di fatto. E questo, oltre all'armonia tra tempo libero e lavoro
nell'alternanza delle stagioni, all'attitudine al risparmio e al rispetto per i
beni ambientali, faceva parte del patrimonio culturale della nostra comune “civiltà
contadina”. Nel saggio-racconto di Peluso, tutti questi tratti sono ben
evidenziati.
Diviene quindi auspicabile una lettura attenta del libro non
solo da parte di chi di agricoltura s’interessa, ma anche da parte dei giovani,
ai quali, fondamentalmente, è dedicato l’ultimo capitolo: “Il coraggio e le
speranze di Antonio”. Antonio è un giovane di Sanza, che - rimasto senza lavoro
per ben due volte nell’arco di poco più di un decennio, a seguito dell’attuale
crisi economica - decide, dopo vari tentativi di ricerca di nuova occupazione,
di far rivivere l’ovile del nonno Sabino, che era stato un pastore. Antonio
riesce nell'impresa, anche perché si lascia guidare dai ricordi che lo tengono
legato alle attività che il nonno svolgeva in sua compagnia. Deve rinunciare,
tuttavia, all'intensa vita sociale cui i nostri giovani sono oggi adusi. Peluso
affronta questo racconto con l’ammirazione che ognuno di noi sente nei
confronti di questo giovane che, con l’aiuto di sua madre, riesce a portare
avanti un’impresa redditizia nello stesso modo in cui si faceva anni fa: capre
al pascolo, cura per i tracciati e per l’ambiente circostante, lavoro intenso per
365 giorni l’anno. “Questo è un lavoro che ti assorbe; non ti permette gli
svaghi. Qui i festivi non esistono”. É questo che Antonio racconta a Peluso. E
qui s’innesta un discorso puramente politico, che dobbiamo fare come corollario
a quanto egregiamente raccontato da Peluso. L’autore, infatti, auspica un
ritorno all'agricoltura, come nel capitolo “Ritorno alla terra”, ma
giustamente si astiene da facili ricette.
In questi anni alla parcellizzazione sempre più spinta della
proprietà terriera non è seguita una politica sociale che potesse far superare
una criticità essenziale: la mancanza di quei meccanismi di solidarietà che
Peluso ci racconta nel suo tomo. Il lavoro nei campi è stato così concepito
come avveniva prima della meccanizzazione. Forse si pensava che, finanziando
ogni singola piccola impresa agricola, si potessero mantenere gli standard
produttivi di una volta. Questo ha funzionato fintanto che i sussidi per le
piccole imprese sono stati erogati, in modo più o meno cospicuo, a chi aveva
fatto della vita dei campi la propria ragione di vita e voleva continuare a
lavorare nello stesso modo in cui avevano fatto i propri genitori. Il
documentato crollo del numero delle piccole attività agricole negli ultimi
decenni, però, sta a indicare un progressivo abbandono del lavoro dei campi da parte
delle giovani generazioni. In questa ottica di abbandono delle colture si
innesta l’utilizzo dei terreni agricoli per fini diversi da quelli della
produzione agro-alimentare: urbanizzazione di vaste aree per fini produttivi o
abitativi; creazioni di aree industriali in siti di pregio ambientali (in
almeno un caso i lavori sono stati affidati a una ditta di Casal di Principe); utilizzo
di alcune aree, destinate alla coltivazione agricola, per smaltimento illecito
dei rifiuti (così come documentato dall’inchiesta Chernobyl condotta dal dott.
Donato Ceglie dell Procura di Santa Maria Capua Vetere). Un vero e proprio
“sacco della vallata” portato avanti, in modo scientifico, sotto lo sguardo
impotente di ogni cittadino che non appartenesse alla “casta locale”. Un sacco
reso possibile dallo svilimento delle attività agro-pastorali locali: nessuna
politica di cooperazione tra proprietari terrieri e operatori agricoli messa in
atto; nessun rilancio dei prodotti su mercati locali (a filiera corta) o
regionali; nessuna formazione per introdurre nuovi metodi produttivi tra le
maestranze locali; infine, nessuna vera attenzione – se non a chiacchiere –
verso i beni ambientali del nostro territorio.
Naturalmente, queste cose l’autore non avrebbe potuto dirle
e, forse, non si sarebbero inserite bene nel saggio-racconto di Peluso,
soprattutto in quell'egregio pezzo di letteratura locale costituito dall'ultimo
capitolo. Il libro, quindi, resta un buon punto d’inizio per comprendere più a
fondo la nostra realtà. Tra i pregi del lavoro vi è quello, si vuole ripetere,
di non aver prescritto facili ricette per il “ritorno alla terra” auspicato.
Questo sarà compito di una nuova classe dirigente che si formerà
dall'implosione di una “casta” che si è insediata al potere locale da oltre un
trentennio e che ha omesso di compiere tutti quegli atti che avrebbero permesso
ad Antonio, oggi, di cooperare con altri giovani per il raggiungimento di obiettivi
comuni. Quella frase sul sacrificio della vita dei campi avrebbe potuto,
infatti, suonare in modo diverso: un lavoro come tanti altri, ugualmente
redditizio ma più sano e pieno di soddisfazioni, che permette di godere in
pieno di una vita sociale che, oggi, i mezzi tecnologici rendono sempre più
varia e intensa.
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